Ho perfettamente impresso nella mente il viso della signora Gisèle Pélicot. Un volto che, pur segnato dal tempo e dal tormento degli ultimi anni, ha mostrato al mondo una bellezza fiera e luminosa, di cui spiccano gli occhi nocciola vivaci e profondi, il naso all'insù e il sorriso disarmante.
Sorprendentemente lucida.
Meravigliosamente determinata.
Una donna alla quale non mi piace associare la definizione di "vittima", ma a cui penso utilizzando le parole "forza", "orgoglio", "dignità".
E mentre il viso di Gisèle è ormai noto grazie alla stampa, quasi sconosciuta è l'immagine di Dominique Pélicot, straordinario architetto di un mostruoso e incomprensibile 'abus', abuso, termine dallo stesso banalmente utilizzato per nominare l'archivio elettronico con la documentazione visiva dei dieci anni di violenze inflitte alla moglie. È superfluo indugiare sui particolari di una cronaca ben conosciuta da tutti.
Mi ha molto sorpresa il ridotto accento posto dalla nostra stampa sulla gravità del crimine commesso da Dominique Pélicot, lasciato apparire come un uomo dimesso, quasi insignificante, durante tutto il periodo in cui si è svolto il processo, concentrando invece costantemente l'attenzione sulla donna. Per quale ragione? È vero, la stampa ha giustamente elogiato il coraggio della signora Pélicot di voler affrontare un processo a porte aperte, perché fosse di esortazione e di aiuto ad altre donne in situazioni simili. Ma io mi sono chiesta: con quale 'coraggio' Dominique Pélicot ha drogato la moglie, per dieci anni, permettendo a decine di uomini di abusare di lei, filmando e catalogando meticolosamente ogni violenza? Quali sono le caratteristiche di una mente che arriva, non solo a concepire, ma ad organizzare e far ripetere innumerevoli volte, come un regista, la stessa scena di violenza accompagnata sempre dagli stessi gesti, quasi si trattasse di un rituale?
Sono stati pochi gli approfondimenti in merito alla mente abietta del signor Pélicot, avrei voluto leggere sui nostri giornali più analisi psichiatriche e valutazioni criminologiche, che aiutassero a capire, che permettessero davvero ad altre donne di identificare traumi, abitudini, manie, ossessioni e gesti anomali che, in casi rari ma non impossibili, riescono a trasformare "un marito e padre amorevole" in un mostro capace di portare avanti per anni il suo progetto criminale, senza mai un tentennamento.
La sensazione, come del resto nella gran parte dei femminicidi e negli episodi più gravi di violenza sulle donne, è che il criminale, anche quando non vi è alcun dubbio sulla sua colpevolezza, non riconosca la gravità del reato commesso e anzi tenda a sminuirlo, rifiutando di fatto le proprie responsabilità.
Chi è dunque Dominique Pélicot? Perché ha architettato e perpetrato violenze continue alla sua compagna di vita? Come ha potuto fingere per anni una normale vita coniugale? Il processo si è concluso con una confessione del signor Pélicot, una condanna esemplare, la rinuncia dell'imputato a ricorrere in appello e, anzi, il desiderio espresso di essere dimenticato.
Invece è proprio per evitare l'oblio che bisogna parlarne, studiare a fondo e sviscerare ogni caso di violenza e femminicidio, per educare le persone al rispetto e all'affettività, rendere possibile comprendere le cause di certe deviazioni comportamentali e insegnare a riconoscerne per tempo i segnali, prima che degenerino fino a tradursi in crimini."
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