Molte sono le donne che incontriamo allo sportello Alzi Eva, fra i 50-60 anni, esasperate da anni di infelicità, vittime di soprusi, controllo, sottile violenza psicologica, umiliate e derise davanti ai figli e in pubblico. Bloccate dalla dipendenza economica senza via di uscita, ma anche dal pensiero di aver scelto, a suo tempo, il matrimonio come una opportunità ragionevole e sicura, socialmente dominante.
Sono quelle del “ma lui”, l’intercalare continuo e impaurito ogni volta si presenta loro comportamenti, piccole astuzie per svincolarsi dalle situazioni più inaccettabili.
Vengono per parlare, sfogarsi con donne estranee ma dalle orecchie attente.
Senza speranza … e noi con loro
Matrimoni e famiglie disfunzionali, un modello diffuso dal quale uscirne non è facile, tantomeno aiutare ad uscirne.
Al contrario, l’autonomia economica e organizzativa, una buona concezione di sé e delle proprie risorse, la sponda della famiglia d’origine, la capacità di comprendere i tempi giuridici se si decide lo scioglimento del vincolo, AIUTANO!!
La dipendenza economica è una storia vecchia.
Ad agitarla, renderla pubblica sono le suffragiste nella Gran Bretagna dell’800. La parità di diritti tra uomini e donne attraverso il voto, implicava la capacità giuridica e la decadenza della potestà maritale.
Le donne infatti non potevano donare o alienare beni immobili propri, cedere o riscuotere capitali, stare in giudizio senza l’autorizzazione del marito.
Se vedove, i beni dotali tornavano alla famiglia d’origine e la tutela dei figli era della famiglia paterna.
Questo per le donne borghesi o aristocratiche. Quelle del proletariato, quanto guadagnavano serviva a mala pena alla sopravvivenza loro e dei figli.
Ugualmente il nulla.
In Italia l’obbligo della autorizzazione maritale decade nel 1919 con la a legge Sacchi, che teoricamente abilita le donne a pari titolo degli uomini.
Poteva essere un inizio di uguaglianza, ma poco cambia nel senso comune e nella pratica sociale.
Sottomissione e dipendenza erano consuetudini radicate.
Arriva poi il colpo di scure del fascismo.
Sorella sposa madre…… tanto madre.
“La patria si serve spazzando anche la propria casa” e così, con regio decreto del 1926 le donne sono escluse dall’insegnamento di lettere e filosofia. Tantomeno essere nominate presidi
Con altrettanto regio decreto, nel 1939 viene stabilito che la presenza femminile negli uffici pubblici non superi il 10% con le mansioni ancillari di dattilografe, stenografe, telefoniste. Nei negozi, commesse.
Del resto in Germania dominavano tre K: Kirche Kùchen Kid

Durante le guerre si sarebbe dovuto spezzare questo disegno, chiamate a sostituire gli uomini al fronte, in fabbrica, negli uffici, ovunque.
Ma ruolo e salario sono svalutati dall’essere considerate ”uomini a termine” . Ci penseranno nel dopoguerra a rimettere ordine al disordine.
Però però …. La riconversione produttiva e la piena occupazione, l’eliminazione dell’avviamento professionale e l’istituzione della scuola dell’obbligo unica sino ai 14 anni iniziano a modificare panorama e prospettive.
La nuova scuola richiede più personale e, con il fenomeno dispregiativo della sua “femminilizzazione”, arrivano in cattedra laureate sino ad allora anonime, sconosciute ai più.
L’istruzione, privilegio dei maschi si era come insinuata tra le ragazze. Non solo i diplomi magistrali e di ragioneria che immettevano subito nel mercato del lavoro, ferma restando la prospettiva del matrimonio, ma anche lauree. Dapprima lettere e filosofia, suggerivano le madri sorprese da queste figlie che non volevano più ricamare il corredo e imparare a cucinare, poi piano piano altri studi e carriere.
Oggi, in mezzo al guado, da un lato si indicano alle ragazze i percorsi STEM, dall’altro il persistere di stereotipi frenanti.
“Per l’uomo più che per la donna è importante aver successo nel lavoro”
Oppure “In condizioni di scarsità di lavoro i datori di lavoro dovrebbe dare la precedenza agli uomini rispetto alle donne”
Il risultato di comodo per le aziende è un salario del 20% inferiore e il tetto di cristallo integro.
Ma non importa, le donne che lavorano, non rinunciano. Salti mortali per conciliare impiego e famiglia, multitasking una necessità non una virtù, consapevoli della libertà che deriva dalla indipendenza economica.
Lavorare significa uscire, dai limiti angusti imposti dal patriarcato, entrare in spazi dove trovare la gratificazione spesso negata in casa, trovandosi competenti e soddisfatte.
Del resto là dove l’occupazione femminile supera il 60% nascono anche più bambini.
Proprio perché constatiamo, nei casi che si presentano allo sportello antiviolenza, come essa sia un’ancora, il punto fermo da cui ripartire una volta curate le ferite, come Casa delle donne se auspichiamo un cambiamento, dobbiamo premere l’acceleratore sulle politiche attive del lavoro, l’istruzione, l’ampliamento dei servizi e la difesa dei diritti conquistati da donne del recente passato.
Un matriarcato virtuale, di parte.
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