Essere porta, non portinaie…forse
(M. Murgia)
Michela Murgia sarà ricordata come scrittrice per i suoi romanzi e saggi, per il suo femminismo che nasce dalla osservazione del canone minore della storia -le nostre vite-, come libera voce di donna che non ha mai passato sotto silenzio arroganza e provocazioni per la sua ironia e gioia di vivere nonostante la malattia.
Un femminismo diretto, elaborato sulla propria pelle successivamente teorizzato e, per questo compreso anche dalle donne giovani che, spavalde si dichiarano di non essere femministe.
Capiva incertezze, ambivalenze, contraddizioni e diceva, “se si deve scegliere, siate la porta non la portinaia”.
Ma di lei quello che mi tocca profondamente è la novità del vivere e parlare della sua famiglia queer.
Definita nel dizionario Treccani “una comunità di persone che indipendentemente dal genere di appartenenza o dell’orientamento sessuale vivono insieme per scelta e sono legate da affinità affettive, sentimentali e della condivisione di attività”.
Assolutamente rivoluzionaria in una società dominata dal modello di famiglia nucleare: padre, madre un figlio, massimo due, indotta dal passaggio da un sistema produttivo agricolo e di allevamento a quello industriale, di trasformazione attraverso macchine.
Conseguenza necessaria dell’abbandono delle campagne e dell’urbanizzazione. Monadi distribuite in condomini anonimi senza rapporti.
Famiglie con un bagaglio di credenze e di cultura patriarcale che, se nella economia precedente avevano un senso, nella nuova, industriale e postindustriale, sono un dovere.
Il padre bread winner, mantiene la famiglia e come tale esercita e gli è riconosciuto il ruolo di capofamiglia. La madre, casalinga accudisce la prole coscientemente ne tramanda i disvalori.
Al figlio maschio lei favorisce l’accesso dell’ascensore sociale, alla femmina riserva la fotocopia, il duplicato di sé. Una contraddizione avvalorata dagli stereotipi che cristallizzano la quotidianità.
Le situazioni variano dalla prevalenza di un sistema economico produttivo e, ancora, per ceto, livello economico e istruzione. Via via, col passare del tempo, meno evidenti, con meno discriminazioni, forse con maggior conformismo, ugualmente persistenti.
Unità familiari con legami permanenti fra i coniugi e fra genitori e figli, fortemente coese, caratterizzate da una esasperata forma di privatismo. Che fa dire al saggista Peter Nichols
“La famiglia italiana è un celebre capolavoro che attraversa i secoli, il baluardo, l’unità naturale il dispensatore di tutto ciò che lo Stato nega, il gruppo semisacro, il vendicatore, il remuneratore”.
Un comodo sostituto del welfare, compensato dalla pubblica apologia e inviolabilità.
E allo Sportello antiviolenza della Casa delle donne approdano donne in prevalenza di 50/60 anni provenienti da famiglie certamente disfunzionali, ma espressione del modello tradizionale, accettato e mai discusso. Vittime condizionate da un coniuge padrone, casalinghe perché hanno abbandonato il lavoro per accudire i figli su sua richiesta, senza reddito, economicamente e psicologicamente soggette al capofamiglia anche se, giuridicamente, questo ruolo non c’è più.
Donne provenienti da famiglie problematiche, sottratte a parenti e amiche, isolate dal contesto sociale dove, fondato su da analoghi modelli prevale lo stesso atteggiamento di cautela verso il prossimo.
Delle giovani generazioni difficile dire, sappiamo del mito di relazioni fusionali e del controllo reciproco, con rapporti sessuali più facili che continuano a essere un obbligo asimmetrico, lui inchiodato alla performance, lei passiva accettante.
Perciò nel nostro contesto sociale parlare di famiglia queer sembra inutile o una fantasia utopica.
Penso però ci siano dei surrogati che, come tali, hanno quasi lo stesso sapore dell’originale.
Dipende da quale mondo ti fai, dal modo di concepire l’amore e la connessione umana, per abbracciare le diversità e costruire comunità fondate sulla accettazione e comprensione reciproca.
Scomponendo la definizione di famiglia queer, ad esempio, ci sono persone che, indipendentemente dal genere di appartenenza o dell’orientamento sessuale, hanno rapporti amicali abituali e profondi, per affinità culturali di pensiero e di consuetudini.
Spesso si organizzano in gruppi che ne favoriscono la continuità. Sono tanti basta saperli trovare e vivere.
Non ultime, se si presta attenzione anche alla condivisione di attività, ci sono le associazioni di volontariato. Persone che insieme perseguono uno stesso obiettivo, in genere di solidarietà sociale, che in esso si riconoscono, si mettono insieme, organizzano prestazioni.
Non esiste la convivenza, ma l’appartenenza, quel sentimento identitario, inclusivo presupposto del riconoscimento reciproco, delle relazioni interpersonali.
Noi Casa delle donne possiamo dire che siamo una simil famiglia queer?
Siamo donne con una forte identità di genere, uno spirito di appartenenza che si oppone agli stereotipi, che dà ampio spazio all’intelligenza emotiva. L’armonia fra mente e cuore che si traduce in consapevolezza di sè, riconoscimento corrisposto, motivazione e empatia.
Motivazione, aperta alle donne meno fortunate, all’aiuto possibile con lo sportello antiviolenza, non a caso battezzato Alzati Eva, alla offerta di reti di sostegno.
Appropriato il pensiero di Gaber “l’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme, non è il conforto di un normale volersi bene, l’appartenenza è avere l’altro dentro sé”.
Questo siamo, e vogliamo essere.
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